Il Comune oltre a fare ricorso per la ferita comunitaria inferta dalla deportazione politica, ha informato e coordinato nel ricorso i parenti dei 23 deportati legati a Montelupo Fiorentino.
L’8 marzo del 1944, dopo gli imponenti scioperi di qualche giorno prima al grido di “Pane, lavoro, pace e libertà”, il Führer chiese una punizione esemplare per questo atto dimostrativo, unico in Europa e in un paese occupato dai nazisti.
Con la velocità di un messaggio whatsapp, Hitler chiese ai presidi territoriali della Repubblica Sociale Italiana di rastrellare una percentuale di scioperanti per tradurli con la forza nei lager: in meno di 24 ore dall’ordine a Montelupo Fiorentino, nella provincia di Firenze più remota, avvenivano i primi rastrellamenti.
Ad attuare l’ordine urgente ci pensarono localmente i quadri fascisti, con la guardia nazionale repubblicana, la guardia comunale e i regi carabinieri, che stesero liste arbitrarie (semmai potesse essere giustificata una tale modalità) in cui, per “fare numero” e non apparire da meno dei comuni limitrofi, fermarono, nella notte e con l’inganno, circa 30 cittadini ignari della sorte a cui erano destinati.
A Montelupo nessuno di loro aveva fatto sciopero e tra loro c’erano antifascisti, anarchici, due medici, due barbieri, il maestro elementare e persone casualmente incontrate.
Se l’ordine fu dato direttamente da Berlino e l’assassinio nei lager avvenne per mano dei nazisti, i fascisti italiani furono complici nell’azione.
I cittadini di Montelupo Fiorentino deportati furono 21, l’ex calciatore Carlo Castellani è sicuramente il più noto, ma assieme a lui ci furono Rolla Arrostiti membro del CLN, Luigi Bardini, Amedeo Migliorini, i cognati Tommaso Cacialli e Galliano Fiorini, i vetrai Adolfo, Dante e Roberto Fossi, Erasmo Frizzi, Lorenzo Piatti, i barbieri Sanzio Gianni e Dino Grazzini, il maestro Giuseppe Lami, Lanzio Mannozzi, Giuseppe Tangorra, il medico Giuseppe Baroncini e il figlio Marcello, il Dott. Giovanni Nonis, Gino Aldo Sonnini, Ateo Rovai. Oltre a loro furono tradotti nei lager Angelo Scardigli, vetraio montelupino deportato da Lecco, e nel giugno, Oreste Mancioli deportato da Pontedera.
Gli assassinati furono 18, i superstiti solo 5, che portarono comunque con sé per tutta la vita le conseguenze della prigionia.
Una ferita profonda per la comunità montelupina che allora contava solo 7000 persone, improvvisamente depredata di capifamiglia, mariti, figli, padri, con modalità criminali.
Per questo motivo l’Amministrazione ha scelto di procedere a un ricorso contro i crimini del terzo reich come previsto dall’articolo 43 del decreto legge 36/2022.
Non solo, in questi mesi il Comune si è adoperato per informare, supportare e coordinare i familiari che hanno espresso volontà di presentare ricorso, arrivando a depositare complessivamente 13 citazioni, che interessano 16 deportati, coinvolgendo ben 25 familiari delle vittime.
Oggi, 16 gennaio, presso il Tribunale di Firenze si è svolta la prima udienza relativa al ricorso presentato dalla comunità di Montelupo; una nuova udienza è stata fissata proprio per il 7 marzo 2024.
«L’opportunità di ricorso – afferma Nesi – si è rivelata occasione importante di ricerca e di attualizzazione della cultura memoria, trasformandola da formale commemorazione, a ricerca delle responsabilità e richiesta di giustizia. Approfondendo il dramma legato a ogni singolo deportato e alla sua famiglia si è giunti a una lettura alta, che individua quei fatti come un unico crimine contro la Comunità. Dalle aree da cui furono prelevati in seguito agli scioperi del marzo del 1944 i presunti scioperanti, poi stivati nei carri piombati dei convogli 32 da Firenze, 33 da Milano e 34 da Bergamo con destinazione Mauthausen, furono ben 1260. Solo una piccola parte di loro riuscì a sfuggire all’assassinio. La deportazione politica merita di essere letta come eccidi e stragi nazifasciste, sia per il numero delle vittime che per le modalità di annientamento di quelle vite».
I tempi della giustizia civile già non immediati, uniti a ciò che sta avvenendo nei tribunali che stanno affrontando ricorsi sul DL 36/2022, con l’Avvocatura di Stato che si costituisce e ricorre, svolgendo ostruzione procedurale di accesso al fondo sollevando eccezioni infondate e a volte surreali, rischiano di negare giustizia ai figli delle vittime, tutti ultraottantenni e con un’aspettativa di vita limitata.
«Come altri prima di me, fra i quali il Senatore Dario Parrini e il Sindaco di Stazzema Maurizio Verona hanno avuto modo di sottolineare quanto l’atteggiamento dell’Avvocatura di Stato sia indegno, nei confronti della Liliana, di Maria, di Fernando, Franco, Mario, Paolo, Virgilio e Pierluigi. Adesso anziani ma allora bambini, privati del padre e con un’esistenza poi indelebilmente gravata da quei fatti criminosi. L’unico risultato sarà quello di allungare i tempi processuali e viene da chiedersi se si tratti di una questione giuridica o prettamente politica», prosegue Nesi.
A distanza di ottant’anni questo è un passato che non passa, perché non si vuole consegnarlo alla storia. E l’unico modo per farlo è che sia resa giustizia e onore a chi venne così barbaramente e ingiustamente colpito dalla violenza nazifascista.